Spazio Tadini: Mario De Leo dal 16 giugno al 28 luglio 2011

Spazio Tadini inaugura la mostra Lettere a un amico

opere su carta di Mario De Leo,

il 16 giugno 2011 alle ore 18:30.

Mario De Leo torna a Spazio Tadini, al termine di una mostra personale al Museo di Lissone dove ha esposto un’antologica. L’artista ha sviluppato un linguaggio pittorico molto personale in cui utilizza segni e frammenti di circuiti elettrici come segni di un “linguaggio cosmico”. E’ in quest’ottica che nasce il suo lavoro su carta, Lettere a un amico. Una serie di “Lettere cosmiche”, così come le definisce l’artista stesso, rivolte a una persona a lui cara. Ogni opera è una lettera, un invito al dialogo, un racconto, una scoperta, un viaggio attraverso la lettura di simboli che l’artista individua ed elegge universali. Lo spazio, il tempo, il suono, la tecnologia, sono elementi importanti della ricerca artistica di Mario De Leo. Infatti, propone la raffigurazione di un universo nuovo, un cosmo in cui l’individuo si muove alla scoperta del futuro, all’invenzione di nuovi linguaggi, alla cattura di nuove emozioni. Il cono è un’immagine ricorrente dei suoi lavori. Si tratta di un simbolo sia maschile che femminile. Nel linguaggio alchemico questa “figura solida” simboleggia l’oro e il sole. Nei lavori di De Leo il cono si presenta dunque come una sorta di fulcro dell’universo, capace di convogliare e raccogliere, di diffondere e amplificare i suoni, quanto minuscoli oggetti o semi da spargere e raccogliere nello spazio cosmico.

Le opere di De Leo sono la rappresentazione di un’armonia ritrovata, o mai persa, di un equilibrio tra l’uomo e l’universo che sembra sempre possibile perché c’è comunicazione, c’è ascolto, c’è l’accoglienza. La tecnologia è solo lo strumento indispensabile perché l’uomo possa entrare in relazione con il mondo, trarne benefici e progettare il suo futuro. Il tutto in un’atmosfera in cui regna l’armonia, l’equilibrio sia quando c’è silenzio che quando c’e musica.

In Lettere a un amico, le carte sono dei messaggi intrisi di quiete, sono l’espressione di un’armonia ritrovata o suggerita. Qua e là si intravvede una frammento di circuito elettrico come una nota, un cono come un segno algebrico per ricordare forse che la bellezza c’è nella scoperta di un equilibrio tra l’uomo e l’universo da scoprire senza urla e senza frenesie, ma dentro se stessi predisponendosi semplicemente all’ascolto magari con un piccolo cono.

Melina Scalise

ms@spaziotadini.it

cell. 3664584532   

Breve Biografia dell’artista

Mario De Leo é nato a Ruvo di Puglia il 16.11.1944. Vive a Monza. Negli anni ’70 si é affermato come uno dei più genuini cantautori italiani (invitato più volte al Club Tenco di San Remo ).

Negli anni ’80 ha sempre più approfondito una ricerca pittorica tra espansioni segniche-surreali-cosmiche ed interferenze di materiali tecnologici essenzialmente di recupero.

Dopo varie collettive ha allestito la sua prima personale a Milano, nell’87 (galleria OSAON) ed é stato poi invitato ad importanti rassegne nazionali ed internazionali come il Premio Suzzara, “Oggetti del necessario” (Spoleto), “Italian Reporter'” (Metropolitan Museum di Tokyo) , “De Hominis Dignitate “, una mostra itinerante sul pensiero filosofico di PICO DELLA MIRANDOLA a New York, Parigi e città di Mirandola.

Alcune opere dell’artista sono in esposizione permanente presso alcuni musei nazionali ed internazionali, come Young Museum di Revere (Mantova), la pinacoteca civica di Ruffano (Lecce), il Castello di Sartirana (opera acquista su segnalazione del maestro Arnaldo Pomodoro- Pavia), il Museo d’arte moderna e contemporanea di Taverna (Catanzaro) e il Guang Dong Museum of Art di Canton Cina.

Ha esposto a Spazio Tadini nel 2009 e quest’anno ha appena terminato la mostra al Museo di Lissone.

 

Prospettive della memoria  di Claudio Rizzi

Il secolo scorso ha scolpito nella Storia un’accelerazione inattesa o inverosimile se rapportata al processo evolutivo dei millenni.

Il volo era un sogno e, improvvisamente, in pochi decenni, diviene realtà e conquista della luna. La comunicazione, da sempre affidata al trasferimento equestre o marittimo, semmai svolta da volatili ammaestrati o risolta da segnali di luce e di fumo, nell’Ottocento si apre alla modernità ma senza ipotizzare, nemmeno lontanamente, una divulgazione capillare e globale.

La velocità conosceva i limiti della natura, del vento, del mare, dei muscoli; nel Novecento cadono le barriere.

Mario De Leo, carattere semplice e autoironico, rivolge acuta attenzione al contesto storico e sociale, al percorso dell’umanità e al ritratto dell’individuo.

Se ne concede l’attimo e il gusto, per iscrivere nel futuro auspici che provengono dall’esperienza dei secoli.

Una visione del passato in prospettiva etnica, la considerazione dei popoli in luogo della lettura dei singoli: il cammino delle genti, i segni della tradizione e le radici delle comunità.

Il lavoro di De Leo si risolve in una mappa del tempo, evocando l’antico e approdando naturalmente alla contemporaneità.

Le prime scene, dipinte negli anni dell’adolescenza, inquadrano paesaggi intonsi della terra d’origine, ove lo scandire dei giorni pare immutevole come la pietra a recinzione dei campi.

Vengono poi, e perdurano negli anni, figure arcaiche, definite “amazzoniche”, indicative di una primordialità assoluta, genetica e ineludibile, insensibile ad ogni sollecitazione del progresso.

Gli stessi segni che tracciano i lineamenti di quei volti si intrecciano e si moltiplicano per delineare visioni urbane, agglomerati e architetture, tessuti connettivi ove risaltano, nella convivenza ravvicinata, contrapposizioni e contrasti.

Le linee di forza aprono lo spazio ed evocano il tempo. Sono strutture di un alfabeto e divengono scrittura, geroglifico, reperto o traccia. Uno spartito di rimandi ad antiche pagine che risuonano improvvise nei simboli del contemporaneo come nell’idea ludica del futuribile.

Ecco pergamene di rarefatta memoria, forse sacri testi o codici etici, tavole della legge o dello spirito, testimoni dell’uomo e del pensiero nel processo evolutivo che conduce dall’alba della Storia alla soglia del quotidiano. Una linea di raccordo continuo nella lettura del tempo, affrontata senza enfasi e senza alterigia, anzi proposta nei termini della semplicità e del patrimonio collettivo.

Privo di ogni riferimento didascalico, il lavoro di De Leo accende la suggestione e instaura dialogo aperto nel rispetto dell’autonomia interpretativa.

I canoni fondamentali di equilibrio, composizione, spazio e segno, rimangono intatti ed anzi ribaditi nel rigore di esecuzione e nella misura degli interventi, a dimostrazione di fedeltà ai codici della pittura e della sua professione.

La tensione poetica rimane costante nell’autenticità espressiva e nella regola degli elementi, determinando uno spazio sospeso e silente che è luogo d’accoglienza dedicato all’osservatore.

In questa atmosfera di sospensione musicale si aprono le prospettive di lettura, liberando memoria collettiva e singola immaginazione, citazioni di ricordo e orizzonti lontani.

Il meccanismo è analogo al risvolto di De Leo musicista. Compositore di note e di testi, ha approfondito lo studio e il tema della canzone popolare, ripercorrendo a ritroso il filo che conduce alle radici dei nostri popoli. Dalla matrice etnica si apre un valore mediterraneo che richiama nazioni lontane eppure comunicanti, diverse ma legate dall’interazione culturale. Da questo bacino di geografia vasta, antica e forte di vicinanza, provengono evocazioni di vissuto privato, racconti e reperti che animano sentimenti sopiti.

L’impegno musicale equivale al lavoro in pittura, teso a scavare per accendere la parola e a fendere i silenzi per comunicare stati d’animo.

Risultano metafora esplicita alcuni titoli, “Punti ascensionali”, “Lettera cosmica”, “Circuito estatico”, tappe di un percorso coerente che fonda sulla memoria le prospettive a futuro.

Un cammino che ricalca l’itinerario della persona, dalla scoperta del mondo attraverso le immagini, all’abbandono del Sud per la scelta del Nord, alla dedizione all’arte come linguaggio universale.

Dalle prime frequentazioni milanesi e lombarde, fine anni Sessanta e inizio Settanta, De Leo aveva tratto la consapevolezza della libertà espressiva.

Benché l’avvento di una nuova fase di mercato e un altro palcoscenico dei protagonisti segnassero il tramonto dei cenacoli artistici che avevano infiammato il fermento fine anni Cinquanta e inizio Sessanta, i giovani potevano tuttavia raccogliere esiti e frutti di un grande dibattito, ereditando territorio e maturità improbabili in epoche precedenti.

Dall’esperienza dei maestri che, sopportando oneri di fatica e discredito, avevano affermato nuovi linguaggi e tracciato prospettive autonome, gli aspiranti traevano proprietà d’indipendenza e coraggio d’impegno.

Ormai definitivamente, dopo un secolo di lunga metabolizzazione, erano decaduti i canoni di obbligatorietà della rappresentazione, sia sacra, sia laica, imposti nel dogma della raffigurazione celebrativa, agiografica o apologetica, che nel corso dei secoli e con le debite eccezioni, aveva dominato il perimetro dell’arte.

Alla esteriorità, reale o simbolica, si contrappone ora l’interiorità nella manifestazione del sentimento e del pensiero.

La libertà di scelta, che malamente viene sintetizzata in una formale quanto inutile frattura tra figurazione e astrazione, consente una pluralità espressiva che alimenta gli epigoni di una intensa stagione di realismo, sociale ed esistenziale, in parallelo a voci di informale lirico e a incisive soluzioni intellettuali. Mentre permangono attive anche formule di tradizione, di continuità e ripetitività, i giovani possono cimentarsi in percorsi autonomi e inquadrare il proprio orizzonte.

De Leo ha già operato la scelta più importante abbandonando le origini e affrontando il nuovo.

In musica rilegge il passato, in pittura interpreta il presente e lo testimonia adottando strumenti della realtà, componenti tangibili che divengono simbolo e anticipazione, equilibrio di forme e visione surreale, cose che si tramutano in altre cose, quasi dignità nuova per reperti contemporanei improvvisamente divenuti vetusti causa l’aggressiva velocità del progresso.

Eppure quei resti, rifiuti di una società vorace, possono ancora intonare un canto e rivendicare un’anima.

Avviene nel silenzio della tela e nello spazio del tempo, affioramento di un’immagine rivelatrice di verità.

Sembra un sogno ed è invece l’attesa di un pensiero grande, collettivo e composito, che lui chiama Nuovo Umanesimo.  CLAUDIO RIZZI

Per informazioni ulteriori consulta l’ufficio stampa di Spazio Tadini: Melina Scalise, ms@spaziotadini.it, cell. 366.45.84.532

Spazio Tadini è Associazione Culturale fondata da Melina Scalise e Francesco Tadini. Per dettagli sull’attività e il calendario delle manifestazioni consultare il sito www.spaziotadini.it o il Blog